Segreti di famiglia 3, puntata oggi 17 dicembre in streaming


La pioggia cadeva sottile su Istanbul quando Ilgaz attraversò il cortile della casa famiglia. Ogni goccia gli sembrava il colpo di un martello sul petto: aveva aspettato quel giorno per mesi, tra udienze, relazioni degli assistenti sociali e notti passate a preparare dossier per dimostrare che lui e Ceylin erano di nuovo genitori affidabili. Dietro di lui, i passi della donna erano più incerti del solito. Lei, l’avvocata che non tremava davanti a nessun giudice, ora stringeva tra le dita una piccola bambola di pezza, il regalo che aveva comprato per Mercan alle tre del mattino, quando l’ansia l’aveva cacciata dal letto. La direttrice li accolse con un sorriso professionale, troppo misurato per essere sincero. «Avete due ore. Niente deviazioni, niente sorprese», li ammonì. Ma quando la porta della sala giochi si aprì e Mercan si voltò verso di loro, gli occhi grandi e vigili come quelli di chi ha già visto troppo, ogni regola smise per un attimo di esistere. «Mamma? Papà?» sussurrò. La parola “papà” trafisse Ilgaz e lo guarì nello stesso istante.

Si erano promessi che sarebbero stati calmi, razionali. E invece, dieci minuti dopo, Ceylin aveva già infranto la prima regola: «Facciamola uscire, solo un po’. Lei ha bisogno di respirare fuori da queste mura». Ilgaz la guardò, combattuto. Il permesso parlava chiaro: potevano accompagnarla a mangiare una pizza, niente di più. Ma in quello sguardo di Ceylin c’erano tutte le volte in cui lo Stato gliel’aveva portata via, tutte le notti in cui si era svegliata chiamando il nome della figlia in una casa vuota. «Andiamo da quella pizzeria all’angolo», concesse alla fine. «La conoscevi ancora quando… prima che tutto crollasse.» Mercan si aggrappò alla mano di Ilgaz con una forza insospettata. Per strada, le luci dei negozi di dicembre tingevano la città di riflessi dorati, ma per loro tre il mondo sembrava ridursi a quel piccolo cerchio invisibile che li teneva uniti. In pizzeria, Mercan ordinò una margherita con il tono serio di un adulto in miniatura. «Qui venivamo sempre?» chiese, scrutando i volti dei genitori come se cercasse conferme a una memoria lontana. «Sì» rispose Ceylin, costringendo un sorriso. «Tu rubavi le olive dal piatto di tuo padre, e lui faceva finta di arrabbiarsi.» Mercan rise, un suono breve, quasi timido. Per un attimo, l’illusione di normalità fu così perfetta da sembrare reale.

Fu solo sulla via del ritorno che il fragile incantesimo cominciò a incrinarsi. La città, che fino a pochi minuti prima sembrava scenografia, tornò a essere una creatura viva, rumorosa, caotica. Clacson, freni che stridevano, sirene lontane: un vortice di suoni che Mercan non era più abituata a sentire così da vicino. All’uscita dalla pizzeria, una moto sfrecciò a pochi metri dal marciapiede, sgommando con rabbia. La bambina sobbalzò, le dita si strinsero attorno alla mano di Ilgaz fino a fargli male. «Tranquilla, sono qui» mormorò lui. Ma il traffico sull’avenue davanti alla casa famiglia era un mostro diverso: file di auto bloccate, clacson impazziti, un autobus che inchiodava all’improvviso. Per attraversare, dovevano aspettare. E in quell’attesa, qualcosa in Mercan si spezzò. Un bambino che piangeva in auto, un cane che abbaiava furioso, un uomo che urlava al telefono; tutti quei suoni insieme la travolsero come un’ondata. Gli occhi le si spalancarono, il respiro si fece corto. «Non voglio… non voglio stare in mezzo alla strada!» gridò con una voce che non sembrava la sua. Si divincolò con una forza insospettata, spostandosi di pochi passi, abbastanza però per trovarsi più esposta, più vicina al bordo del marciapiede, dove le auto passavano a intermittenza. Un clacson esplose a un metro da loro. Ilgaz la afferrò e la strinse al petto, sentendo il cuore della bambina battere all’impazzata contro il proprio. Ceylin, pallida, cercava di parlarle, ma ogni parola si perdeva nel frastuono.

Quando finalmente riuscirono a farla rientrare nel cortile della casa famiglia, Mercan tremava. «Non voglio uscire più» singhiozzò, rifiutando persino l’abbraccio della madre. Fu in quel preciso istante che Ceylin capì: tutte le loro battaglie legali, tutte le ore in tribunale non avevano preparato nessuno di loro a quel momento. Non stavano più solo lottando contro un sistema, ma contro le cicatrici invisibili lasciate su una bambina che aveva imparato a sopravvivere, ma non a fidarsi. La direttrice li aspettava sulla soglia, le braccia conserte. «È stata una pessima idea farla uscire nel traffico dell’ora di punta» disse, senza alzare la voce. «Lo sapevate.» Ogni sillaba era un colpo a freddo. Ceylin avrebbe voluto urlare che avevano solo portato la loro figlia a mangiare una pizza, che non c’era nulla di criminale nell’inseguire per due ore l’illusione di una vita normale. Invece, restò in silenzio, perché dall’altra parte del corridoio vedeva l’assistente sociale annotare qualcosa su un taccuino. Ogni parola sbagliata poteva diventare una riga in più contro di loro.

La sera, seduti in auto davanti al cancello chiuso, Ilgaz e Ceylin non si guardavano neppure. Entrambi rivivevano l’istante in cui Mercan si era paralizzata in mezzo al caos, ognuno colpevolizzando se stesso più dell’altro. «Abbiamo fatto un errore» ammise infine lui, la voce roca. «Non avevamo il diritto di usare il mondo come se fosse una scenografia per la nostra redenzione.» Ceylin scosse il capo, gli occhi lucidi ma duri. «No. Il nostro errore è stato credere che bastasse l’amore per cancellare tutto il resto. Ma lei adesso ha paura di noi tanto quanto del traffico là fuori. È questo che non riesco a sopportare.» Nel silenzio che seguì, le sirene della città giunsero ovattate. Nessuna promessa, nessun “andrà tutto bene” sulle loro labbra: solo la consapevolezza che da quel giorno in poi ogni passo verso Mercan sarebbe stato lento, fragile, costellato di possibili ricadute. Eppure, sotto quella superficie di sconfitta, qualcosa resisteva. Non la certezza di vincere, ma la decisione ostinata di restare. Di presentarsi ancora, il giorno dopo, con nuovi documenti, nuove proposte ai servizi sociali, una nuova pizza se necessario. Perché certe battaglie di famiglia non si vincono con un colpo di scena, ma con la scelta ripetuta, testarda, di non smettere mai di bussare a quella porta chiusa. Se vuoi, posso trasformare questa storia in un prologo di serie o svilupparla in una puntata completa, con altri intrecci familiari e legali.